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VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY

(5-13 LUGLIO 2015)

INCONTRO CON IL CLERO, I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE E I SEMINARISTI

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Santuario Nazionale Mariano “El Quinche”, Ecuador
Mercoledì, 8 luglio 2015

[Multimedia]


 

Buongiorno, fratelli e sorelle,

In questi due giorni, 48 ore, in cui sono stato a contatto con voi, ho notato che c’era qualcosa di particolare – scusatemi -, qualcosa di particolare nel popolo ecuadoriano. In tutti i luoghi dove vado, sempre l’accoglienza è gioiosa, contenta, cordiale, religiosa, ricca di pietà, in ogni parte. Ma qui c’era qualcosa nella religiosità, nel modo, per esempio, di chiedere la benedizione - dal più vecchio fino al “bebé”, che la prima cosa che impara è fare così – c’era qualcosa di diverso… E anch’io ho avuto la tentazione, come il Vescovo di Sucumbios, di domandare: Qual è la ricetta di questo popolo? Qual è? Ci pensavo su e pregavo… Ho chiesto a Gesù più volte nella preghiera: Che cos’ha questo popolo di diverso? E stamattina, pregando, mi si è presentata alla mente quella Consacrazione al Sacro Cuore.

Penso che devo dirvelo come un messaggio di Gesù: tutto questo che voi avete di  ricchezza, di  ricchezza spirituale, di religiosità, di profondità, viene dall’aver avuto il coraggio – perché sono stati momenti molto difficili – il coraggio di consacrare la nazione al Cuore di Cristo, quel Cuore divino e umano che ci ama tanto. E io vi vedo un po’ così: divini e umani. Di sicuro siete peccatori, anch’io però… Ma il Signore perdona tutto…

Custodite questo! E poi, pochi anni dopo, la consacrazione al Cuore di Maria. Non dimenticate: quella consacrazione è una pietra miliare nella storia dell’Ecuador, e da quella consacrazione sento come se venisse questa grazia che voi avete, questa religiosità, questa cosa vi rende diversi.

Oggi devo parlare a voi sacerdoti, seminaristi, religiose, religiosi e dirvi qualcosa. Ho un discorso preparato… ma non ho voglia di leggere… Così lo do al presidente della conferenza dei religiosi perché lo pubblichi poi.

E pensavo alla Vergine, pensavo a Maria. Le due parole di Maria – qui mi sta mancando la memoria, non so se ne ha dette altre… -: “Si faccia in me”. Sì, certo, chiese spiegazioni sul perché era stata scelta lei, all’Angelo. Ma dice: “Si faccia in me”. E l’altra parola: “Fate quello che Lui vi dirà”. Maria non ha mai voluto essere protagonista. E’ stata discepola per tutta la vita. La prima discepola di sua Figlio. Ed era cosciente che tutto ciò che lei aveva portato era pura gratuità di Dio. Coscienza di gratuità. Per questo “si faccia”, “fate” che si manifesti la gratuità di Dio. Religiose, religiosi, sacerdoti, seminaristi, tutti i giorni ritornate, fate questo camino di ritorno alla gratuità con cui Dio vi ha scelti. Voi non avete pagato l’ingresso per entrare in seminario, per entrare nella vita religiosa. Non ve lo siete meritato. Se qualche religioso, sacerdote o seminarista o suora che c’è qui crede di esserselo meritato, alzi la mano! Tutto gratuito. E tutta la vita di un religioso, di una religiosa, di un sacerdote e di un seminarista che va per questa strada – e già che ci siamo diciamo: e dei vescovi – deve andare per questa strada della gratuità, ritornare tutti i giorni: “Signore, oggi ho fatto questo, mi è andato bene questo, ho avuto questa difficoltà… Ma tutto questo, tutto viene da Te, tutto è gratis”. La gratuità. Siamo oggetto della gratuità di Dio. Se dimentichiamo questo, lentamente ci andiamo facendo importanti. “E guardate questo, che opere sta facendo…”; “guardate, questo lo hanno fatto vescovo del tal posto importante…”; “questo lo hanno fatto monsignore”; “questo…”. e così lentamente ci allontaniamo da ciò che è la base, e da cui Maria non si allontanò mai: la gratuità di Dio.

Un consiglio da fratello: tutti i giorni, magari alla sera è meglio, prima di andare a dormire, uno sguardo a Gesù e dirgli: Mi hai dato tutto gratis. E rimettersi a posto. Allora quando mi cambiano di destinazione o quando c’è una difficoltà, non protesto, perché tutto è gratis, non merito nulla! Questo ha fatto Maria.

San Giovanni Paolo II, nella Redemptoris Mater – che vi raccomando di leggere. Sì, prendetela, leggetela. Certo, san Giovanni Paolo II aveva uno stile di pensiero circolare, era professore, ma era un uomo di Dio, e dunque bisogna leggerla più volte per tirar fuori tutto il succo che contiene – dice che forse Maria – non ricordo bene la frase, sto citando, ma voglio citare il fatto – nel momento della croce, della sua fedeltà, avrebbe avuto voglia di dire: “E questo mi avevano detto che avrebbe salvato Israele! Mi hanno ingannato”. Non lo disse. Non si permise nemmeno di pensarlo, perché era la donna che sapeva che aveva ricevuto tutto gratuitamente. Consiglio di fratello e di padre: tutte le sere ricollocatevi nella gratuità. E dite: “Si faccia, grazie perché ogni cosa me l’hai data Tu”.

Una seconda cosa che vorrei dirvi è di conservare la salute, ma soprattutto aver cura di non cadere in una malattia, una malattia che è abbastanza pericolosa, o molto pericolosa per quelli che il Signore ha chiamato gratuitamente a seguirlo e a servirlo. Non cadete nell’“alzheimer spirituale”, non perdete la memoria, soprattutto la memoria del posto da cui siete stati tratti. Quella scena del profeta Samuele, quando viene mandato a ungere il re di Israele. Va a Betlemme, alla casa di un signore che si chiama Jesse, che ha sette o otto figli, non so, e Dio gli dice che tra quei figli si trova il re. E chiaramente, li vede e dice: “Dev’essere questo”, perché il maggiore era grande, alto, prestante, sembrava coraggioso… E Dio gli dice: “No, non è lui”. Lo sguardo di Dio è diverso da quello degli uomini. E così fa passare tutti i figli e Dio gli dice: “No, non è”. Il profeta si trova a non saper che fare, e allora domanda al padre: “Non ne hai altri?” . E gli risponde: “Sì, c’è il più piccolo, là, a pascolare le capre e le pecore”. “Fallo chiamare”. E arriva il ragazzino, che poteva avere 17, 18 anni, non so, e Dio gli dice: “E’ lui”. Lo hanno preso da dietro il gregge. E un altro profeta, quando Dio gli dice di fare certe cose come profeta: “Ma chi sono io se mi hanno preso da dietro il gregge?”. Non dimenticatevi da dove siete stati tratti. Non rinnegate le radici!

San Paolo si vede che intuiva questo pericolo di perdere la memoria e al suo figlio più amato, il vescovo Timoteo, che aveva ordinato, dà consigli pastorali, ma ce n’è uno che tocca il cuore: “Non dimenticarti della fede che avevano tua nonna e tua madre!”, cioè: “Non dimenticarti da dove sei stato tratto, non dimenticarti delle tue radici, non sentirti promosso!”. La gratuità è una grazia che non può convivere con la promozione, e quando un sacerdote, un seminarista, un religioso, una religiosa entra “in carriera” – intendo in carriera umana –, incomincia ad ammalarsi di alzheimer spirituale e comincia a perdere la memoria del posto da cui è stato tratto.

Due principi per voi sacerdote, consacrati e consacrate: tutti i giorni rinnovate il sentimento che tutto è gratis, il sentimento di gratuità della elezione di ognuno di voi – nessuno di noi la merita – e chiedete la grazia di non perdere la memoria, di non sentirsi più importante. E’ molto triste quando si vede un sacerdote o un consacrato, una consacrata, che a casa sua parlava in dialetto, o parlava un’altra lingua, una di queste nobili lingue antiche che hanno i popoli – quante ne ha l’Ecuador! – ed è molto triste quando si dimenticano della lingua, è molto triste quando non la vogliono parlare. Questo significa che si sono dimenticati del posto da dove sono stati tratti. Non dimenticate questo. Chiedete la grazia della memoria. E questi sono i due principi che volevo sottolineare. E questi due principi, se li vivete – ma tutti i giorni, è un lavoro di tutti i giorni, tutte le sere ricordare quei due principi e chiedere la grazia – questi due principi, se li vivete, vi daranno, nella vita, vi faranno vivere con due atteggiamenti.

Primo, il servizio. Dio mi ha scelto, mi ha tratto, perché? Per servire. E il servizio che è peculiare a me. Non che: “ho il mio tempo”, “ho le mie cose”, “ho questo…”, “no, ormai chiudo il negozio”, “sì, dovrei andare a benedire le case ma… sono stanco… oggi c’è una bella telenovela alla televisione, e allora…” – per le suore! –. Dunque: servizio, servire, servire. E non fare altre cose, e servire quando siamo stanchi e servire quando la gente ci dà fastidio.

Mi diceva un vecchio prete, che fu per tutta la vita professore in scuole e università, insegnava letteratura, lettere – un genio –, quando andò in pensione chiede al provinciale che lo mandasse in un quartiere povero, di quei quartieri che si formano con la gente che viene, che emigrano cercando lavoro, gente molto semplice. E questo religioso una volta alla settimana andava nella sua comunità e parlava, era molto intelligente; e la comunità era una comunità di facoltà di teologia; parlava con gli altri preti di teologia allo stesso livello, ma un giorno dice a uno: “Voi che siete… Chi insegna il trattato sulla Chiesa qui?”. Il professore alza la mano: “Io”. “Ti mancano due tesi”. “Quali?” “Il santo Popolo fedele di Dio è essenzialmente olimpico – cioè fa quello che vuole – e ontologicamente molesto”. E questo contiene molta sapienza, perché chi prende la strada del servizio deve lasciarsi molestare senza perdere la pazienza, perché è al servizio, nessun momento gli appartiene, nessun momento gli appartiene. Sono qui per servire: servire in ciò che devo fare, servire davanti al Tabernacolo, pregando per il mio popolo, pregando per il mio lavoro, per la gente che Dio mi ha affidato.

Servizio. Mescolalo con la gratuità, e allora… ciò che dice Gesù: “Quello che hai ricevuto gratis, dallo gratis”. Per favore, per favore! Non commerciate la grazia! Per favore, la nostra pastorale sia gratuita. Ed è così brutto quando uno perde questo senso di gratuità e diventa… Sì, fa cose buone, però ha perso questo.

E il secondo, il secondo atteggiamento che si vede in un consacrato, una consacrata, un sacerdote che vive questa gratuità e questa memoria – questi due principi che ho detto all’inizio, gratuità e memoria, è la gioia, l’allegria. E’ un regalo di Gesù, questo, ed è un regalo che Lui dà se glielo chiediamo, e se non ci dimentichiamo di queste due colonne della nostra vita sacerdotale o religiosa, che sono appunto il senso di gratuità, rinnovato tutti i giorni, e il non perdere la memoria del posto da cui siamo stati tratti.

Questo io vi auguro. “Sì, Padre, Lei ci ha detto che forse la ricetta del nostro popolo era quella: siamo così grazie al Sacro Cuore”. Sì, certo, ma io vi propongo un’altra ricetta nella stessa linea, nella direzione del Cuore di Gesù: senso di gratuità. Lui si fece nulla, si abbassò, si umiliò, si fece povero per arricchirci con la sua povertà. Pura gratuità. E senso della memoria: facciamo memoria delle meraviglie che il Signore ha compiuto nella nostra vita.

Che il Signore conceda questa grazia a tutti voi, la conceda a tutti noi qui presenti, e che continui – stavo per dire “a premiare” –, continui a benedire questo popolo ecuadoriano, che voi dovete servire, che voi siete chiamati a servire, lo continui a benedire con questa peculiarità così speciale che ho notato da subito quando sono arrivato qui. Che Gesù vi benedica, e che la Vergine vi protegga.

* * *

Preghiamo tutti insieme il Padre, che ci ha dato tutto gratuitamente, che mantiene viva in noi la memoria di Gesù.

[Padre nostro…]

[Benedizione]

E per favore, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io sento tante volte la tentazione di dimenticarmi della gratuità con la quale Dio mi ha scelto e di dimenticarmi del posto da cui sono stato tratto.

Pregate per me!


Discorso preparato dal Santo Padre:

Cari fratelli e sorelle,

porto ai piedi di Nostra Signora del Quinche quanto vissuto in questi giorni della mia visita; desidero affidare al suo cuore gli anziani e gli infermi, con i quali ho condiviso un momento presso la casa delle Sorelle della Carità, e anche tutti gli altri incontri che ho avuto in precedenza. Li lascio nel cuore di Maria, ma li deposito anche nei cuori di voi sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi, affinché, chiamati a lavorare nella vigna del Signore, siate custodi di tutto quanto questo popolo dell’Ecuador vive, soffre e gioisce.

Ringrazio Mons. Lazzari, il Padre Mina e la sorella Sandoval per le loro parole, che mi danno lo sunto per condividere con tutti voi alcune cose nella comune sollecitudine per il Popolo di Dio.

Nel Vangelo, il Signore ci invita ad accogliere la missione senza porre condizioni. È un messaggio importante che non è bene dimenticare e che, in questo Santuario dedicato alla Vergine della Presentazione, risuona con un accento particolare. Maria è un esempio di discepola per noi che, come lei, abbiamo ricevuto una vocazione. La sua risposata fiduciosa: «Avvenga per me secondo la tua Parola» (Lc 1,38), ci ricorda le sue parole alle nozze di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica fatela» (Gv 2,5). Il suo esempio è un invito a servire come lei.

Nella Presentazione della Vergine possiamo trovare alcuni suggerimenti per la chiamata di ognuno di noi. La Vergine Bambina è stata un dono di Dio per i suoi genitori e per tutto il popolo che aspettava la liberazione. È un fatto che si ripete frequentemente nella Scrittura: Dio risponde al grido del suo popolo, inviando un bambino, debole, destinato a portare la salvezza e che, allo stesso tempo, rinnova la speranza dei genitori anziani. La parola di Dio ci dice che nella storia di Israele i giudici, i profeti, i re sono un dono del Signore per far giungere la sua tenerezza e la sua misericordia al suo popolo. Sono segno della gratuità di Dio: è Lui che li ha eletti, scelti e inviati. Questo ci libera dall’autoreferenzialità, ci fa comprendere che non ci apparteniamo più, che la nostra vocazione ci chiede di rinunciare ad ogni egoismo, ad ogni ricerca di guadagno materiale o di compensazione affettiva, come ci ha detto il Vangelo. Non siamo mercenari, ma servitori; non siamo venuti per essere serviti, ma per servire e lo facciamo con pieno distacco, senza bastone e senza bisaccia.

Alcune tradizioni concernenti il titolo di Nostra Signora del Quinche ci dicono che Diego de Robles realizzò l’immagine su incarico degli indigeni Lumbicí. Diego non lo faceva per devozione, lo faceva per un beneficio economico. Dato che non poterono pagarlo, la portò a Oyacachi e la barattò per delle tavole di cedro. Diego inoltre non accolse la richiesta di quella gente di fare anche un altare all’immagine, finché, cadendo da cavallo, si trovò in pericolo e sentì la protezione della Vergine. Ritornò al villaggio e fece il piedistallo dell’immagine. Anche ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di un Dio che ci viene incontro all’incrocio, che nella nostra condizione di persone cadute, abbattute, ci chiama. Che la vanagloria e la mondanità non ci facciano dimenticare da dove Dio ci ha riscattati!, che Maria del Quinche ci faccia scendere dalle nostre ambizioni, dai nostri interessi egoistici, dalle eccessive attenzioni verso noi stessi!

L’«autorità» che gli apostoli ricevono da Gesù non è per il loro vantaggio: i nostri doni sono destinati a rinnovare e edificare la Chiesa. Non rifiutate di condividere, non fate resistenza a dare, non rinchiudetevi nella comodità, siate sorgenti che tracimano e rinfrescano, specialmente gli oppressi dal peccato, dalla delusione, dal rancore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 272).

Il secondo punto che mi richiama la Presentazione della Vergine è la perseveranza. Nella suggestiva iconografia mariana di questa festa, la Vergine Bambina si allontana dai suoi genitori salendo la scalinata del tempio. Maria non guarda indietro e, con chiaro riferimento al monito evangelico, cammina decisa in avanti. Anche noi, come i discepoli nel Vangelo, ci mettiamo in cammino per portare ad ogni popolo e luogo la Buona Notizia di Gesù. Perseveranza nella missione significa non andare girando di casa in casa, cercando dove ci trattino meglio, dove ci siano più mezzi e comodità. Richiede di unire la nostra sorte a quella di Gesù sino alla fine. Alcune relazioni delle apparizioni della Vergine del Quinche ci dicono che una “signora con un bambino in braccio” visitò per alcuni pomeriggi di seguito gli indigeni di Oyacachi quando questi cercavano rifugio dagli assalti degli orsi. Varie volte Maria andò incontro ai suoi figli; loro non le credevano, dubitavano di questa signora, però restarono ammirati dalla sua perseveranza nel ritornare ogni pomeriggio al calar del sole. Perseverare, anche se ci respingono, anche se viene la notte e crescono lo smarrimento e i pericoli. Perseverare in questo sforzo, sapendo che non siamo soli, che è il Popolo Santo di Dio che cammina.

In qualche modo, nell’immagine della Vergine bambina che sale al Tempio, possiamo vedere la Chiesa che accompagna il discepolo missionario. Insieme a lei ci sono i suoi genitori, che le hanno trasmesso la memoria della fede e ora generosamente la offrono al Signore perché possa continuare la sua strada; c’è la sua comunità rappresentata nel “seguito delle vergini”, nelle “sue compagne”, con le lampade accese (cfr Sal 44,15) e nelle quali i Padri della Chiesa vedono una profezia di tutti quelli che, imitando Maria, cercano con sincerità di essere amici di Dio, e ci sono i sacerdoti che la aspettano per riceverla e che ci ricordano che nella Chiesa i pastori hanno la responsabilità di accogliere con tenerezza e di aiutare a discernere ogni spirito e ogni chiamata.

Camminiamo uniti, sostenendoci gli uni gli altri, e chiediamo con umiltà il dono della perseveranza nel suo servizio.

Nostra Signora del Quinche è stata occasione di incontro, di comunione, per questo luogo che dai tempi dell’Impero Inca si era costituito come un insediamento multietnico. Com’è bello quando la Chiesa persevera nel suo sforzo per essere casa e scuola di comunione, quando generiamo quello che mi piace definire la cultura dell’incontro!

L’immagine della Presentazione ci dice che, una volta benedetta dai sacerdoti, la Vergine bambina si sedette sui gradini dell’altare e poi, alzatasi in piedi, danzò. Penso alla gioia che si esprime nelle immagini del banchetto di nozze, degli amici dello sposo, della sposa adornata con i suoi gioielli. È la gioia di chi ha scoperto un tesoro e ha lasciato tutto per averlo. Incontrare il Signore, vivere nella sua casa, partecipare alla sua intimità, impegna all’annuncio del Regno e a portare la salvezza a tutti. Attraversare le soglie del Tempio esige di trasformarci come Maria in templi del Signore e metterci in cammino per portarlo ai fratelli. La Vergine, come prima discepola missionaria, dopo l’annuncio dell’Angelo, partì senza indugio verso un villaggio della Giudea, per condividere questa immensa esultanza, la stessa che fece sussultare san Giovanni Battista nel grembo di sua madre. Chi ascolta la sua voce “sussulta di gioia” e diventa a sua volta predicatore della sua gioia. La gioia di evangelizzare muove la Chiesa, la fa uscire, come Maria.

Anche se sono molte le ragioni che si considerano per il trasferimento del santuario da Oyacachi a questo luogo, mi fermo su una in particolare: “Qui è ed è stato più accessibile, è più comodo e vicino a tutti”. Così ha inteso l’Arcivescovo di Quito, Fra Luis López de Solís, quando ordinò di edificare un Santuario capace di convocare e accogliere tutti. Una Chiesa in uscita è una Chiesa che si avvicina, che si adatta per non essere distante, che esce dalla sua comodità e ha il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo (Esort. ap. Evangelii gaudium,  20).

Ritorneremo ora alle nostre responsabilità, interpellati dal santo Popolo che ci è stato affidato. Tra queste, non dimentichiamo di aver cura, di animare e di educare la devozione popolare che si tocca con mano in questo Santuario ed è tanto diffusa in molti Paesi latinoamericani. Il popolo fedele ha saputo esprimere la fede col proprio linguaggio, manifestare i suoi più profondi sentimenti di dolore, dubbio, gioia, fallimento, gratitudine con diverse forme di pietà: processioni, veglie, fiori, canti che si trasformano in una magnifica espressione di fiducia nel Signore e di amore a sua Madre, che è anche la nostra.

A Quinche, la storia degli uomini e la storia di Dio confluiscono nella storia di una donna, Maria. E in una casa, la nostra casa, la sorella madre terra. Le tradizioni di questo titolo evocano i cedri, gli orsi, la fenditura nella roccia che qui è stata la prima casa della Madre di Dio. Ci parlano del passato di uccelli che avevano attorniato il luogo, e dell’oggi dei fiori che adornano i dintorni. Le origini di questa devozione ci portano in tempi quando era più semplice «la serena armonia con il creato […] per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò ci circonda, e la cui presenza non deve essere costruita» (Enc. Laudato si’, 225), ma che ci si rivela nel mondo creato, nel suo Figlio amato, nell’Eucaristia che permette ai cristiani di sentirsi membra vive della Chiesa e di partecipare attivamente alla sua missione (cfr Documento di Aparecida, 264), in Nostra Signora del Quinche, che accompagnò da qui gli albori del primo annuncio della fede ai popoli indigeni. A lei affidiamo la nostra vocazione; che renda ciascuno di noi dono per il nostro popolo, che ci dia la perseveranza nell’impegno e nell’entusiasmo di uscire a portare il Vangelo di suo figlio Gesù – uniti ai nostri pastori – fino ai confini, fino alle periferie del nostro caro Ecuador.

 



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