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ENCICLICA
A QUO DIE
DEL SOMMO PONTEFICE
CLEMENTE XIII

 

Il Papa Clemente XIII.
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. Dal giorno in cui, al di là di ogni Nostra previsione, è accaduto quell’incredibile fatto che la Nostra umiltà fosse elevata per intervento divino alla Sacra Sede del Beato Pietro, vertice di tutte le Chiese, entrati nella profonda convinzione e nella costante preoccupazione che Ci fosse stato imposto un peso superiore alle nostre forze, ci saremmo abbandonati alla tristezza e alle lacrime, se non ci avesse distolto da un eccessivo abbattimento il fatto che qualcosa di simile è accaduto al Santissimo Profeta e solerte Condottiero del popolo di Israele.

Infatti, gridando verso il Signore, Mosè disse: «Perché hai trattato così male il tuo servo? E perché gli hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? Non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo: è un peso troppo grave per me» (Nm 11,11.14). Perché non si perdesse d’animo e potesse portare bene il peso che aveva accettato, Dio gli comandò di convocare settanta uomini, scelti tra gli anziani, nei quali infuse lo spirito di Mosè, affinché fossero maestri del popolo e condividessero con lui il peso, e Mosè non lo dovesse portare da solo. In questo momento, Venerabili Fratelli, l’unica consolazione Ci proviene dal fatto che Dio già da tempo vi ha scelti dalla moltitudine dei Fedeli per affidarvi la cura delle anime: vi ha assegnati a Noi come nostro aiuto, e vi ha riempito del suo stesso spirito, quando siete stati iniziati ai Misteri Episcopali, al punto che, confidando prima di tutto nell’aiuto di Dio e nella sua forza, e poi nel singolare zelo di cui ardete nell’adempimento del vostro ministero, e contando sulla vostra sapienza, riteniamo che la nostra tristezza e preoccupazione possano in gran parte essere superate. Vi abbiamo dunque scritto questa lettera sia «per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,12), sia per «ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza» (2Pt 3,1), ma soprattutto per esortarvi a compiere fedelmente il ministero, sollecitando voi, che già sappiamo essere zelanti, pronti alla battaglia e vigilanti contro il terribile nemico del genere umano, ad opporvi ad esso con maggiore prontezza e coraggio e, «saliti sulle brecce», ergervi «come baluardo in difesa degli Israeliti» (Ez 13,5).

2. In questa guerra scatenata su tanti fronti e tanto pericolosa, la speranza della vittoria sarà tanto più grande e sicura quanto più «conserveremo l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

Perciò, Venerabili Fratelli, con tutte le forze la vostra Carità si adoperi perché dall’animo dei Fedeli vengano sradicati perfino i germi di una qualsiasi lotta interna. È vostro pressante compito fare sì che tutti «cerchino la pace» (1Pt 3,11), tutti «si diano alle opere della pace» (Rm 14,19). Lo stesso Signore Gesù, poco prima di consegnarsi alla Passione, «Vi lascio la pace – disse agli Apostoli – vi do la mia pace» (Gv 14,27). E non solo agli Apostoli, ma anche a noi lasciò in eredità la pace: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17,20-21).

Vi prego, Venerabili Fratelli: cerchiamo di conservare sempre con costanza questa eredità così grande e così magnifica, affidata a noi da Cristo Signore, per estinguere i dissensi nell’animo dei fedeli. Il pegno di questa eredità, afferma l’apostolo, è lo Spirito Santo.

Pertanto quando noi ci poniamo al cospetto di Dio e gli chiediamo che mandi dal cielo lo Spirito Santo a santificare il sacrificio della Chiesa, è chiaro che noi questo in realtà chiediamo: che per mezzo della sua grazia spirituale sia conservata integra nella chiesa l’unità della carità. Questo però tutti dobbiamo avere presente: alla domanda del Signore chi dicesse la gente chi era il Figlio dell’uomo, e chi essi, credessero che fosse, mentre alcuni riferirono un’opinione, altri un’altra, il Beato Pietro, interpretando il pensiero di tutti, per una rivelazione proveniente non dalla carne né dal sangue, ma dal Padre, dichiarò che egli era il Figlio del Dio vivo (Mt 16,14ss).

3. Da questo risultò chiaro che anche allora c’era questa differenza tra i figli della luce e i figli del secolo: questi avevano opinioni diverse e quindi erano divisi tra di loro; quelli invece, iniziati al Mistero dell’unità, per bocca del loro Capo e quindi per bocca di uno solo, professarono l’unica fede comune a tutti. Impegnate quindi tutte le vostre forze, Venerabili Fratelli, per consolidare la pace tra i fedeli. Disordini, «contese, invidie, animosità, dissensi» (2Cor 12,20) scompaiono del tutto, affinché coloro che si fregiano del nome Cattolico «siano in perfetta unione di pensiero e di intenti», «tutti unanimi nel parlare» (1Cor 1,10), «abbiano gli stessi sentimenti» (2Cor 13,11) e comprendano bene e si fissino nell’animo che coloro che vogliono essere membra di Cristo non possono essere in accordo con il capo se poi sono in discordia con le membra, e che il Padre non può riconoscere come suoi figli quei Fratelli che non sono uniti mediante la carità ai loro fratelli.

4. Perché nessuno potesse deviare da quella via da cui dipende la salvezza del genere umano, l’apostolo ci indica le note caratteristiche e i tratti più salienti della carità. «La carità è paziente, – afferma – è benigna la carità. Non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira» (1Cor 13,4-5). Dal che si deve dedurre che dove manca la carità, là massimamente prende piede quella malignità che dalla nostra stessa origine è entrata nel mondo. Di lì si infiammano in fondo al cuore, come fiaccole, l’arroganza, l’atteggiamento orgoglioso, l’alterigia, l’avarizia, l’intolleranza, l’ambizione, l’invidia, la vanagloria e tutti gli altri vizi dell’animo che nascono dalla «corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza» (1Pt 1,4).

5. Siano esclusi quindi dal governo episcopale l’orgoglio dell’animo e gli atteggiamenti altezzosi. Noi che diciamo di dimorare in Cristo, dobbiamo comportarci come Lui si è comportato (1Gv 2,6); e dal Signore Gesù, non da altri, dobbiamo ricavare l’esempio da imitare. Essendo sorta una discussione tra i suoi discepoli chi di loro fosse il più grande, egli dichiarò: «I Re delle nazioni le governano (...). Per voi però non sia così; ma chi è il più grande fra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve (...): Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27). Pertanto, essendoci stato proibito da Cristo Gesù di dominare, dobbiamo ritenere nostro dovere non il dominio ma il servizio della Chiesa e a questo indirizzare tutti i nostri pensieri, fatiche e decisioni, affinché possiamo conservare integre e salve le pecore affidate dal Signore alla nostra cura, e appaia chiaro che di null’altro siamo tanto preoccupati quanto della loro incolumità.

6. Perciò mi rivolgo a voi con le parole del Principe degli Apostoli: «Esorto gli Anziani, quale Anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe, della gloria (...): pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza – come il mercenario che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge (Gv 10,12) – ma volentieri, secondo Dio – come il Pastore che dà la propria vita per le pecore (Gv 10,11) – e non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-3). Non c’è veleno più terribile e dannoso della voglia di dominare; se un Vescovo se ne lascia prendere, è inevitabile che la Chiesa a lui affidata, se non muore, certamente decada in modo disastroso. Il Vescovo pertanto non ambisca tanto essere a capo quanto essere di esempio; e, fattosi modello del gregge, tenga alta come fiaccola l’innocenza della vita, l’integrità dei costumi, la pietà, la religiosità; e il popolo, fissando in esse lo sguardo, con gioia e con prontezza cammini nella via del Signore, nella certezza di avere non un padrone, ma una guida.

7. È anche prerogativa caratteristica della carità essere invasi da una particolare letizia, o meglio essere trasportati dalla gioia quando qualcuno nella Chiesa di Dio si distingue per pietà e dottrina, e, sommamente desideroso della salvezza delle anime, adempie i doveri del ministero sacerdotale con assiduità, con impegno, con diligenza. Abbastanza spesso ci accorgiamo che una persona di questo taglio va soggetta alla invidia degli altri (Qo 4,4); ma chi ha senno comprende che non lo si deve lasciare rovinare o distruggere dalle calunnie degli invidiosi. Quando Eldad e Medad «si misero a profetizzare nell’accampamento», a Giosuè figlio di Nun che suggeriva di impedirli, Mosè rispose che era suo desiderio che tutto il popolo fosse profeta: «Sei tu geloso per me? – disse – Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il mio spirito!» (Nm 11,27-29). La carità non permette che il Vescovo si irriti o si lasci prendere dall’ira: se uno viene sedotto da cattive passioni, non lo tratta come un nemico, ma lo corregge come un fratello (2Ts 3,13) e con parole benevole, con opportune esortazioni e ammonizioni lo richiama dalla strada sbagliata e lo rimette sulla strada buona. Se poi accade che debba ricorrere ad una punizione più forte delle parole, si guarda dal proferire anche una sola espressione aspra e, pur dimostrando severità, evita qualsiasi offesa.

8. Ma non si può non parlare del desiderio della vanagloria, che qualcuno giustamente potrebbe chiamare la rovina dei Vescovi. Effettivamente non c’è forse niente di più contrario alla carità: se quella terribile peste si attacca ad un Vescovo e lo contagia, nei suoi riguardi si insinua l’adulazione e assale la parte più nobile di lui, cioè l’anima; lo conquista con velenose piaggerie; e gonfiando a dismisura quella eccessiva e malvagia stima di se stesso, dalla quale ognuno di noi così spesso è tratto in errore, riduce quel misero al punto che non cerca più la gloria di Dio, ma la propria gloria; quella gloria che lo stesso Cristo dichiarò di non cercare (Gv 8,50). L’adulazione poi è seguita dalla maldicenza e dalla falsità, come da perniciosissimi satelliti e servi; e siccome vengono allontanate le persone oneste e valide, si arriva al punto che al seguito del Vescovo non rimane più nulla di sano, nulla di integro. Per questo il sapientissimo Salomone ammonisce: «Meglio essere rimproverato dal sapiente che ingannato dall’adulazione degli stolti» (Qo 7,5). E ancora: «Tieni lungi da te la bocca perversa e allontana da te le labbra fallaci» (Pr 4,24). E quel detto che il Vescovo sempre deve avere presente: «Se un principe dà ascolto alle menzogne, tutti i suoi ministri sono malvagi» (Pr 29,12).

Perciò «non cerchiamo la vanagloria» (Gal 5,26); per coloro che la cercano «la perdizione sia la loro fine, intenti come sono alle cose della terra» (Fil 3,19). Quanto a Noi, guardiamo in alto, teniamo fisso lo sguardo sulla dimora dell’eterna gloria, e convinciamoci che non dalla bocca degli uomini deriva la vera, stabile e autentica gloria. Tutti abbiamo peccato e siamo privi della gloria di Dio (Rm 3,23), tutti dobbiamo, morti al peccato (1Pt 2,24), cercare non la nostra gloria, ma che «il Padre sia glorificato nel Figlio» (Gv 14,16), per essere «ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria di Dio»; a Lui solo gloria, maestà e potenza (Gd 23).

9. Tra i frutti della giustizia anzitutto bisogna mettere la carità verso i poveri: parlo della giustizia «che deriva dalla fede in Cristo» (Fil 3,9). Ma «se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi!”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova la nostra fede?» (Gc 2,15-16). Così l’Apostolo Giacomo interpella tutti i Cristiani. La carità di ogni fedele, specialmente di colui che ha maggiori ricchezze, deve venire in aiuto ai poveri; essi però quasi per un loro particolare diritto esigono generosità da parte di noi che abbiamo i beni della Chiesa, cioè i voti dei fedeli, le offerte per i peccati e il patrimonio dei poveri, non come beni personali, ma come beni a noi affidati; e non è giusto appropriarcene per usi personali al punto che non resti nulla per loro: «È nostro quello che spendete», potrebbero gridarci. Infatti di dove deriva così grande ricchezza e abbondanza, di cui la maggior parte di noi gode, se non dai doni della Chiesa? Dai beni della sposa quindi si deve prelevare solo quello di cui abbiamo bisogno per avere «di che mangiare e di che coprirci, e contentiamoci di questo» (1Tm 6,8), ritenendo «un grande guadagno la pietà congiunta però a moderazione» (1Tm 6,6). Guadagno certamente apprezzabile è quando abbiamo in abbondanza di che custodire, nutrire, ornare la Sposa; ma guadagno più vantaggioso di tutti è quando, mediante le elemosine, otteniamo da Dio la grazia, che illumina la nostra mente cieca e che ci solleva e ci sostiene nei momenti in cui siamo prostrati e abbattuti per la nostra naturale miseria. Infatti se apriamo il nostro cuore all’affamato e consoliamo l’anima afflitta, «la nostra luce brillerà fra le tenebre e la nostra tenebra sarà come il meriggio e il Signore riempirà le nostre anime del suo splendore» (Is 58, 10-11/Volgata).

10. Certamente l’elemosina ha una grande forza per ottenere da Dio luce all’intelligenza e grazia di devozione, senza la quale l’ufficio pastorale perde sicuramente la sua efficacia; ma nulla è più efficace della preghiera e del Santo Sacrificio della Messa. L’Apostolo ci prescrive di «pregare senza interruzione e rendere grazie in ogni cosa» (1Ts 5,17-18), perché è volontà di Dio che non estinguiamo lo spirito di fede e di carità, spirito che sostiene la nostra debolezza e «intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Pertanto se qualche Vescovo ha bisogno di sapienza, «la domandi a Dio» che gliela darà; «la domandi però con fede, senza esitare» (Gc 1,5-6). È desiderabile che egli, per quanto possibile, nutra nel suo cuore una fede grande come quella di Mosè, il quale stette incrollabile «come se vedesse il Dio invisibile» (Eb 11,27). Alla fede deve andare unita l’umiltà: «Io sono povero e infelice: – gridava Davide – vieni in mio aiuto, o Dio» (Sal 69,6). Il valore della preghiera perseverante e continua è messo in luce dalle parole di Gesù Cristo nostro Signore, che ci insegnò: «Bisogna pregare sempre senza stancarsi» (Lc 18,1). È in questa attitudine di perseveranza e di pazienza che dobbiamo attendere Dio: «Se indugia, attendiamolo; apparirà e non si smentirà, perché certo verrà e non tarderà» (Ab 3,3/Volgata). Noi non dobbiamo però guarire soltanto le nostre infermità, ma essere convinti che anche i mali degli altri ci riguardano, come se fossero nostri; di conseguenza la nostra preghiera deve essere rivolta al Signore con maggiore ardore e maggiore perseveranza. Con la preghiera noi ci facciamo interpreti in qualche modo dei fedeli della Chiesa, presentando al cospetto di Dio la fede, la speranza e la carità di tutti, e dobbiamo ottenere per tutti quello di cui tutti, e ciascuno in particolare, hanno bisogno. L’augustissimo Sacrificio Eucaristico ci aprirà la strada alla preghiera e ci otterrà tutto quello che chiediamo. Perciò, anche se siamo assorbiti dalle molteplici occupazioni del nostro ministero, non mancheremo di offrire molto spesso a Dio il Corpo e il Sangue Sacratissimi di Gesù Cristo; e convinciamoci che nessun altro impegno per noi è più importante di quello di immolare a Dio Padre l’ostia di propiziazione per i nostri peccati e per i peccati del popolo.

11. Poiché siamo in qualche modo mediatori fra Dio e gli uomini, come portiamo a Dio i voti degli uomini, così è nostro compito portare al popolo la volontà di Dio. E «questa è la volontà di Dio: la nostra santificazione» (1Ts 4,3). Tocca a noi pertanto, Venerabili Fratelli, «aprire le porte della predicazione per annunciare il mistero di Cristo» (Col 4,3), al fine di manifestarlo in modo autentico. Questo soprattutto dobbiamo insegnare al popolo: che Cristo offrì alla giustizia divina la sua carne; una carne simile alla nostra, eccetto il peccato; una carne non solo santa, ma anche santificante e tuttavia capace di soffrire e soggetta alla morte; una carne che in qualche modo rappresentasse tutti noi; e con la sua carne offrì anche noi (1Pt 3,18); la sua carne e noi nello stesso tempo espose alle sofferenze che meritavano le nostre colpe. Dobbiamo insegnare che quella carne fu condannata ai dolori della morte; che ha subito la maledizione pronunciata contro i trasgressori della legge; che morì fra acerbissimi dolori; che è stata resa soddisfazione alla legge; che tutto ciò che sa di peccato è stato cancellato dalla morte e dalla sepoltura di Gesù Cristo; che il Signore Gesù è risorto dalla tomba con quella stessa carne, ma spogliata dell’involucro della mortalità e rivestita degli onori della immortalità; e che pertanto i peccatori per essere giustificati devono morire con Cristo, che per loro e a loro nome è morto; che con Cristo debbono entrare nel sepolcro, per deporvi la carne macchiata dalla colpa; che il vecchio uomo deve essere consegnato e abbandonato all’ira di Dio e alla maledizione della morte, affinché in noi possa rivivere l’uomo nuovo, divenuto nuova creatura e nuovo impasto, e tendere con Cristo all’immortalità e alla gloria eterna. Perciò i Cristiani debbono avere il loro pensiero rivolto a quella vita, la vita eterna, non alla presente così breve; e debbono sradicare dall’animo i piaceri e il desiderio della ricchezza che porta ai piaceri; e soprattutto debbono liberarsi della superbia, da cui derivano tutti i malvagi istinti; ricordandosi che «il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,17).

12. Quanto importante sia poi insegnare queste verità e tutta l’altra dottrina circa i misteri di Dio, voi stessi, Venerabili Fratelli, nella vostra sapienza, facilmente lo intuirete. Soprattutto si deve attentamente considerare quante disposizioni si richiedono da coloro che sceglierete per il ministero Sacerdotale e per istruire il popolo nella dottrina Cristiana, quale innocenza di vita, quale integrità di costumi, quale castità, giustizia, pietà, religiosità: quanto sia importante che, se qualcosa di cattivo, qualcosa di vizioso, qualcosa di malvagio per cattiva abitudine si è introdotto nei costumi, i Parroci lo tolgano con delicatezza e con prudenza; che aiutino e istruiscano qualunque fedele con salutari ammonimenti e consigli; che alle anime fedeli diano le ali, mediante le quali da terra si elevino alla contemplazione delle realtà divine; e una volta strappate al mondo, donarle a Dio e cercare di riprodurre in loro l’immagine di Dio. Al contrario non si deve tollerare che i Parroci richiedano dai fedeli loro affidati un tenore di vita che essi non sono in grado di realizzare nella propria; e che rimproverino negli altri il loro modo di vivere, rifiutandosi poi di essere a loro volta corretti. A puri e santi costumi si deve aggiungere una dottrina bene assimilata, degna di un ecclesiastico. Abbiano una buona conoscenza della Scrittura: «Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16). Attingano, come a sorgente, al sacro libro di ambedue i Testamenti, alle tradizioni della Chiesa, agli scritti dei Santi Padri, dai quali scaturisce una dottrina pura e solida circa la fede e i costumi; consultino assiduamente e imparino il Catechismo Romano, somma di tutta la Dottrina Cattolica, da cui dedurre le prediche da tenere al popolo.

13. Riterrete dunque fedele ministro a cui affidare una porzione del gregge del Signore non colui che può vantare studi privati o una qualche raccomandazione, ma colui che è ottimo sotto ogni punto di vista; particolarmente colui la cui virtù e discrezione tenderebbero a rifiutare il ministero. Come regola generale, «non abbiate fretta di imporre le mani ad alcuno» (1Tm 5,22), cosa che, a Nostro parere, inevitabilmente avviene quando le persone non vengono esaminate e provate che una o due volte; mentre il candidato dovrebbe essere accuratamente e attentamente interrogato e severamente giudicato, perché non accada che, «fatti complici dei peccati altrui» (1Tm 5,22), meritiamo da Dio il castigo della nostra inconsulta temerità. Non vi infastidite, Venerabili Fratelli, se un po’ più a lungo ci soffermiamo su un argomento che richiede grande precauzione. Quali sono i sacerdoti, di solito tale generalmente è anche il popolo. In essi, soprattutto se sono Parroci, come in uno specchio, tutti fissano lo sguardo. Dobbiamo essere convinti che nessuno fa tanto male alla Chiesa quanto i Chierici viziosi, che trasmettono i loro vizi al popolo e lo corrompono al punto che il loro esempio si rivela più dannoso del peccato stesso.

14. Anche se fossero eccellenti coloro che abbiamo scelto per il sacro ministero, non per questo dobbiamo ritenere di avere adempiuto il dovere di evangelizzare; in questo modo noi daremmo l’impressione di avere ceduto ad altre mani le reti che il Signore ha affidato a noi perché fossimo «pescatori di uomini» (Mt 4,19). Principale dovere dei Vescovi è annunciare la Parola di Dio. «Guai a me se non predicassi il Vangelo, – gridava l’Apostolo – è un dovere per me» (1Cor 9,16); e dichiarava di avere ricevuto l’incarico da Cristo Signore non tanto di battezzare – ministero certamente santo – ma principalmente di evangelizzare (1Cor 1,17). A giudizio degli stessi Apostoli, il ministero della Parola occupa il primo posto; e quei santissimi uomini giudicarono che «non era giusto trascurarlo» (At 6,2); e per questo stabilirono di affidare ai Diaconi le altre opere che riguardavano il servizio della carità al prossimo (At 6,4).

E il beatissimo Paolo scrive a Timoteo; «Dedicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento» (1Tm 4,13). Se un Vescovo si ritiene non idoneo alla predicazione e dichiara che questo ministero non entra nelle sue capacità, non lasci mancare però il suo servizio nelle altre attività che in qualche modo riguardano la Parola di Dio. Pertanto, se ai Chierici ha ordinato di insegnare i primi elementi della Dottrina Cristiana ai fanciulli, non lasci mancare in questo settore la sua opera. Si affianchi ai parroci nell’insegnare al popolo, affinché il suo dovere di annunciare la Parola almeno in parte sia salvaguardato: cosa che sarà di grandissima utilità, perché stimolerà tutti a compiere ciascuno il proprio dovere.

Perciò non gli sia gravoso amministrare qualche volta i Sacramenti ai fedeli insieme ai Confratelli sacerdoti; andare ogni tanto in Coro a cantare i Salmi con i Canonici; presiedere personalmente gli incontri che ha messo in programma: in forza di questa presenza i sacri Ministri riceveranno una non piccola parte del suo spirito, come i settanta uomini dello spirito di Mosè. A questo si aggiunga il fatto che il popolo, che osserva questi comportamenti, si farà un’altissima opinione della santità del culto divino; e coloro che ne sono indegni, scoraggiati da questo sublime spettacolo, si guarderanno bene dall’aspirare al sacro Ministero.

15. Ma poiché il Vescovo non può governare la Chiesa e aver cura del suo gregge se è assente, bisogna che nessuno di voi si allontani dalla propria Chiesa per un certo tempo. Questo, che è richiesto dalla legge naturale, è stato sancito anche dai sacri canoni e specialmente dai Decreti Tridentini. E tutti i paesi della Diocesi debbono essere visitati affinché, se in qualcuno di essi la forza delle leggi ha incominciato a indebolirsi, voi li salviate dalla negligenza dei ministri o dalla disobbedienza dei sudditi. Se poi qualche volta ci sarà un motivo piuttosto grave e inderogabile per cui vi dovete allontanare dalla Chiesa e rimanere assenti per un certo periodo di tempo, in nome di Dio vi prego: fate in modo che la Chiesa non debba desiderare troppo a lungo il proprio Pastore; pensate che la vostra assenza rappresenta sempre per lei un pericolo.

16. Inoltre alle parole si aggiunga sempre l’esempio: «Offriamo noi stessi come esempio in tutto di buona condotta» (Tt 2,7), perché «il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro» (Tt 2,8). Le opere non siano mute, perché non illuminate dalla parola: e le parole non debbono vergognarsi, perché non confermate dai fatti; teniamo ben fisso nell’animo che il perfetto Principe della Chiesa deve possedere come sua dote particolare le più grandi virtù, perché la sua vita sia resa splendente dalla parola, e la dottrina dalla vita. La casa di ognuno di noi sia cattedra di pudore e di moderazione, modello di Disciplina Ecclesiastica; in essa regnino sempre dignità e concordia: ciò conseguiremo se non ci lasceremo condizionare dalla volontà e dal favore di alcuno, se in nulla cederemo alla debolezza dell’animo e alla mollezza, se a nessuno concederemo privilegi, perché questo molto spesso genera confusione nel governo della Chiesa, e può portare anche ad offese gravi, e procurare al Vescovo invidia e disprezzo.

17. Quanto a noi, i nostri occhi «hanno anticipato le veglie» (Sal 76,5) per arrivare a costituire nelle diverse Città Vescovi che all’Episcopato portino una dottrina sana, una vita irreprensibile, un animo pronto a tutto per Cristo; Vescovi che abbiano una concezione esatta del ministero loro conferito: un ministero in cui colui che è a capo non si esalti per la grandezza della dignità ma si abbassi con la forza dell’umiltà. E nel cercare e chiedere informazioni circa le persone che vogliamo preporre ad un così grande ministero, ci serviremo della vostra testimonianza e autorità, confidando nel senso religioso e nella fedeltà della vostra testimonianza, intimamente certi che voi non terrete conto né della carne né del sangue, ma solo di colui che vi ha chiamato «a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12).

18. Ancora un ammonimento, Venerabili Fratelli, circa la forza e il coraggio, di cui c’è estremamente bisogno contro tutto ciò che attenta all’ortodossia della fede, ferisce la pietà, rovina l’integrità dei costumi. Vi prego: «Siamo pieni di forza con lo Spirito del Signore, di giustizia e di coraggio» (Mi 3,8). Non lasciamo, a somiglianza di «cani muti incapaci di latrare» (Is 56,10), che «i nostri Greggi diventino una preda e le nostre pecore il pasto d’ogni bestia selvatica» (Ez 34,8); niente ci trattenga dall’esporci ad ogni genere di combattimento per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Pensiamo attentamente «a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori» (Eb 12,3). Se ci arrestiamo davanti all’audacia dei malvagi, sono già crollate la forza morale dell’Episcopato e la divina e sublime potestà di governare la Chiesa; e non possiamo più continuare a considerarci, anzi non possiamo neanche più essere Cristiani, se temiamo le minacce e le insidie degli uomini perversi. Riponendo fiducia «non in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2Cor 1,9), elevati e come protesi verso il cielo, disprezzando le realtà caduche della terra, invochiamo il Signore: «Mio solo rifugio nel giorno della sventura» (Ger 17,17), e non ci lasciamo abbattere né nello spirito né nel corpo: «Siamo infatti collaboratori di Dio» (1Cor 3,9), e il Signore è con noi «sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Nessuno scandalo, nessuna persecuzione scuota la nostra fermezza, per non dimostrarci ingrati a Dio che ci ha eletti e il cui aiuto è sicuro quanto le sue promesse.

19. Infine, poiché nel giudizio eterno dovremo rendere conto prima di tutti e davanti a tutti quelli che portano il nome di Cristo, vi preghiamo, Venerabili Fratelli, e vi supplichiamo: qualora sorgano scandali o dissensi che non siete in grado di dominare, rivolgetevi a questa Sede del Beatissimo Principe degli Apostoli, Capo e vertice dell’Episcopato, da cui lo stesso Episcopato e ogni potere legato a questo nome è derivato. Di qui, come dalla sua sorgente nativa, tutte le acque scaturiscono e, limpide perché derivate da un capo puro, scorrono nelle diverse regioni di tutto il mondo; di qui tutte le Chiese attingano quello che si deve prescrivere in questi casi e come purificare coloro che un’acqua degna solo di corpi mondi vorrebbe evitare, perché immersi in un fango da cui è difficile liberarsi. Confidando prima di tutto nella potenza di Dio, poi nella protezione del Beato Pietro, Noi vi verremo incontro con il consiglio, con l’aiuto, con l’autorità. Siamo pronti per voi a «prodigarci volentieri, anzi a consumarci» (1Cor 12,15), per difendere l’incolumità della Chiesa e quella dei Fratelli. Del resto anche sotto il peso dell’incarico che ci è stato imposto «abbiamo avuto fiducia in Dio» (2Ts 2,2): da Lui è venuto il peso, da Lui verrà anche l’aiuto; Egli che ci ha conferito la dignità ci darà anche la forza, perché la debolezza non soccomba sotto la grandezza della grazia. Frattanto invocate nella preghiera la misericordia e la clemenza del nostro Dio, affinché nei nostri giorni ci salvi da quelli che ci combattono; irrobustisca la vostra fede; moltiplichi la devozione; faccia fiorire la pace; e poiché ha voluto affidare a me, suo piccolo servo, il governo della Chiesa, si degni di rendermi capace di così grande missione e pronto alla vostra difesa; e per questo allunghi i tempi del nostro servizio, affinché giovi alla crescita spirituale ciò che avrà concesso all’età. La grazia del Signore Nostro Gesù Cristo sia con voi; vi benediciamo e vi salutiamo con il bacio santo; e a tutti i Confratelli sacerdoti e a tutti gli altri Fedeli delle vostre Chiese con tanto amore impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 settembre 1758, nell’anno primo del Nostro Pontificato.

 



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